
Il cane è il migliore amico dell'uomo, dicono, e adesso posso confermarlo anch’io. Ho avuto un cane intorno ai vent'anni. Non era un cane tutto mio, in realtà, ma della famiglia. Avevamo da poco traslocato in una casa con giardino e un giorno mio padre era tornato con un cucciolo di pastore maremmano, cosa di cui non ci aveva preannunciato nulla. Con tutta probabilità, ci aveva messo di fronte al fatto compiuto perché sapeva che mia madre si sarebbe lamentata e per qualche giorno credetti che in effetti mio padre sarebbe stato costretto a riportarlo indietro. Era un batuffolo bianco, che aveva ancora bisogno di essere allattato. Nonostante mia madre fosse contraria a tenerlo, fu lei che se ne occupò. Alla fine cedette e Ricky rimase con noi, con il patto che avrebbe vissuto in giardino. Gli costruimmo una cuccia e negli anni, manco a dirlo, fu mia madre la sua vera padrona. Dopo la scomparsa di Ricky, che mia madre curò fino alla fine, anche nei momenti difficili della malattia, a nessuno di noi venne più in mente di prendere un cane.Sei anni fa, mentre mi trovavo al mare, i miei due bambini mi chiesero con veemenza di acquistare un cagnolino che una signora del villaggio voleva dar via. Si trattava di un cucciolo di Chihuahua a pelo lungo. Nonostante le forti insistenze, mi rifiutai categoricamente di prenderlo in considerazione, sia perché sono contraria alla mercificazione degli animali sia perché saremmo tornati a Milano con l'aereo e il tipo di biglietto che avevamo non prevedeva la possibilità di aggiungere un animale. Tuttavia, tornando dalla spiaggia, un pomeriggio mi trovai muso a muso con quel cagnolino dagli occhi neri come la pece. Qualcosa mi vibrò dentro l'anima e capii che ero pronta per avere un cane. Ma non un cane da tenere fuori casa, no. Avvertii improvviso e inaspettato l’impulso di avere un cane come amico. Fu come se mi si sciogliesse dentro qualcosa. Ribadii ai miei figli di non poter prendere quel cucciolo, ma promisi che, una volta tornati a Milano, saremmo andati al canile per vedere se fosse possibile adottarne uno. I miei figli fecero grandi salti di gioia, che rinforzarono la mia decisione.
Il primo weekend dopo il rientro a Milano, mi recai al canile. Molti descrivono i canili come dei lager, per cui ero prevenuta. Il canile di Milano si trova nella periferia est della città e per certi versi è un posto bellissimo, con grandi prati dove i cani possono correre e dove le gabbie sono in realtà degli ambienti ampi. Mi colpì la gentilezza e l'amore che i volontari del canile mostravano alle povere creature abbandonate. Mi fecero fare un giro e mi ritrovai a fissare tanti occhietti che parevano chiedere solo di essere portati via. Compresi che, nonostante il posto fosse più che dignitoso, la maggior parte dei cani desidera uscire da quell'ambiente ampio e spersonalizzato per essere accolto in una famiglia.
Al termine del tour compilai un modulo e specificai alla ragazza che mi aveva seguita che non avevo preferenza di razza né di sesso. Mi bastava che fosse un cane di piccola taglia, considerate le dimensioni della mia casa. Non avevo preferenza nemmeno rispetto all'età, mi andava bene un po' tutto. Tornai a casa a mani vuote, ma d'altronde questo lo avevo previsto. Avevo letto sul sito del canile che, prima di adottare, bisogna seguire una lunga trafila e che quindi, una volta scelto il cane, è necessario effettuare un periodo di familiarizzazione all'interno del canile per poi procedere a una preadozione per vedere come va la coabitazione tra animale e uomo nella nuova famiglia. All’inizio il nuovo proprietario del cane è in realtà una sorta di affidatario per un anno, al termine del quale, se tutto va bene, arriva la conferma dell'adozione. Questo mi apparve come un eccesso di burocrazia, ma di fatto rappresenta un’attenzione e una tutela verso quegli animali che hanno già subito un trauma e gli si vuole evitare di finire in una situazione non adatta a loro.
Tornai al canile una seconda volta e di nuovo non trovai il cane che poteva andare bene per me o meglio ne individuai due, ma erano stati già opzionati da altre famiglie. Mi sentii un po' sconfortata, convinta che non avrei mai trovato il mio cane. Mi resi conto che lo stavo cercando non solo per accontentare i miei figli, ma anche perché improvvisamente mi ero ritrovata desiderosa di condividere la mia vita con un pelosino. Mi chiesi cosa avrei fatto se non avessi trovato il cane giusto al canile. La mia mente continuava a rifiutare l'idea di dover comprare un cane. Cominciai a spargere la voce nella mia zona e anche al parco, dicendo che, se ci fosse stato qualcuno intenzionato a regalare un cagnolino, sarei stata disposta a prenderlo. Proprio nel momento in cui pensai che il canile non potesse aiutarmi, ricevetti la telefonata della volontaria con cui avevo parlato la prima volta, che mi disse che voleva farmi conoscere Fochina, una Yorkshire di sette anni, che era stata abbandonata dal proprietario alcuni mesi prima ed era arrivata al canile in condizioni critiche. Non me l'avevano fatta conoscere perché non era considerata adottabile a causa delle condizioni di salute molto precarie. L’avevano sottoposta a numerose cure e adesso stava molto meglio. Era bellissima e di buon carattere, per cui, se volevo, potevo andare a trovarla. Quel pomeriggio stesso mi precipitai al canile e fu così che la prima volta incontrai lo sguardo di quello che sarebbe diventato il mio grande amore. Vidi da lontano la volontaria che avanzava verso di me attraverso il prato, tenendo al guinzaglio una pelosetta bionda che trotterellava. Quando me la ritrovai ai piedi, provai ad accarezzarla, ma lei si ritrasse. Era estremamente timida. La volontaria mi passò il guinzaglio e così feci la mia prima passeggiata con la signorina. La presi anche in braccio e la trovai così morbida e leggera che mi si riempirono gli occhi di lacrime per la commozione. Arrivò anche un'altra volontaria ed entrambe capirono che Fochina mi aveva colpita. Mi spiegarono che Fochina era il nome che le era stato attribuito al canile, visto che non si sapeva quale fosse il suo nome originario. Dal microchip erano risaliti al proprietario, che avevano contattato in ogni modo possibile e che si era rifiutato di riprenderla con sé – non saprò mai per quale assurdo e disumano motivo. Mi dissero che avrei potuto cambiarle il nome, ma io decisi che, se fosse stata mia, non glielo avrei cambiato per non indurle ulteriore confusione. Tornai altre volte, anche con i miei figli, che si mostrarono entusiasti di fronte alla piccola Yorkshire bionda.
Finalmente, dopo due mesi in cui frequentai il canile e familiarizzai con Fochina, il veterinario diede il permesso definitivo per farla uscire da lì. Mi recai al canile emozionatissima. Mentre compilavo scartoffie varie e mi impegnavo a comunicare al canile ogni eventuale difficoltà fosse sorta, le fecero una lunga doccia. Mi consegnarono la coperta a cui la piccola si era abituata negli ultimi mesi per darle un senso di continuità e, mentre altre volte aveva opposto qualche resistenza prima di passeggiare con me, stavolta Fochina mi seguì subito, quasi come se sapesse. Non dimenticherò mai il momento in cui io e lei raggiungemmo il limitare del canile. Proprio sulla soglia del cancello, che era stato aperto per noi, la piccola frenò all'improvviso e si voltò indietro guardando i vasti campi del canile. Poi si girò verso di me, mi fissò a lungo negli occhi e infine prese la rincorsa e si mise a correre veloce verso fuori, trascinandomi al guinzaglio. Anche le volontarie si commossero vedendo la cagnolina che correva felice verso la libertà e verso la sua nuova vita. In macchina la presi in braccio e mi accomodai con lei sul sedile posteriore. Per tutto il tempo rimase accovacciata sulle mie gambe a guardare fuori dal finestrino, tremando come una foglia. Mi chiesi se ciò fosse a causa del freddo perché era ancora un po' bagnata o se si trattasse di un filo di paura. Quando mise per la prima volta piede nel mio appartamento, la liberai dal guinzaglio e lei fece una vera e propria ispezione della casa. Qualche anno dopo misi in vendita quella casa per trasferirci in una più grande e devo dire che nessun agente immobiliare ha mai scrutato così attentamente la mia casa come fece Fochina la prima volta che vi entrò. Fece un giro delle stanze, guardò attentamente i mobili e le pareti e annusò dappertutto. Terminato il giro, tornò nella sala, individuò la cuccia che avevo preparato per lei e, dopo essersi dissetata nella ciotola lì accanto, andò subito ad accovacciarsi. Dal suo sospiro capii che si trovava a suo agio. Quando si fece l'ora, le misi la pettorina e il guinzaglio e andammo al parco a ritirare i miei figli, che la accolsero con grida di giubilo. Dopo circa un mese i volontari vennero a trovarmi a casa per valutare come si procedeva e fummo promossi a pieni voti per la fase di preadozione. La trafila era così lunga che mi pareva di adottare un bambino. In effetti, Fochina è diventata la mia bambina. I miei figli hanno amato la piccoletta come una sorella, e lei è diventata quella terza figlia che non sono riuscita ad avere. Mi rendo conto che un cane diventa davvero parte della famiglia se vive in casa perché soltanto così condivide l'intero vissuto della famiglia. Ecco perché con Ricky, rimasto sempre in giardino, era diverso. Fochina mangiava ai miei stessi orari, soprattutto a colazione. Mi aspettava buona per tutto il tempo che stavo via per lavoro e io tornavo sempre il prima possibile. Ci concedevamo delle belle passeggiate o lungo il marciapiede vicino casa oppure, quando il tempo lo consentiva, in un parco vicino. Mi occupavo della sua pulizia quotidiana e le spazzolavo il suo bellissimo pelo con grande gioia. Mi seguiva dappertutto: quando cambiavo stanza, mi veniva dietro come un’ombra; se stavo sul divano, si rannicchiava ai miei piedi; se mi accomodavo sulla poltroncina, si accovacciava sulle mie gambe appoggiando il musetto contro la mia pancia. Negli ultimi anni ha dormito con me: le mettevo una copertina sul mio letto, lei si accucciava e si faceva delle lunghe ronfate. Fochina è stata davvero la mia bambina e la mia più cara amica.
Un momento in cui ho apprezzato particolarmente la sua compagnia è stato durante il Covid, e non solo perché mi consentiva di uscire più volte al giorno. In un periodo di grave deprivazione sociale, la presenza di Fochina si rivelò ancora più preziosa. Io e i miei figli ci stringemmo nel mio appartamentino di allora e Fochina fu la nostra gioia. Quando riaprirono le frontiere tra le regioni, comprai i biglietti per la nave e così io, i miei figli e Fochina ci sistemammo per quasi ventiquattro ore in una confortevole cabina chiamata “amici quattro zampe”, con una magnifica vista sul mare. Fu così che per la prima volta Fochina mise piede nella mia casa siciliana, dove, in vacanza, trascorreva lunghe ore distesa al sole sul terrazzo. Lì si mostrava estremamente felice; era come se capisse che quello era un momento di pausa dalla vita quotidiana, in cui ci rilassavamo, ci divertivamo e riuscivamo a trascorrere moltissimo tempo insieme. Fochina abbaiava difficilmente e se voleva qualcosa, veniva a leccarmi le gambe o a darmi colpetti con il suo musetto oppure tamburellava con la coda contro le porte o contro il pavimento. La nostra intesa è diventata talmente profonda che non mi sbagliavo mai nell'interpretare i suoi bisogni e le sue sensazioni. L'ho lasciata solo due volte ad amici, per viaggiare, e mi è comunque dispiaciuto perché, nonostante ci facessimo tutti i giorni delle videochiamate, mi mancava terribilmente. Lei era sopraffatta da una grande tristezza, che abbiamo spazzato velocemente una volta che ci siamo riunite. Da allora abbiamo preso a viaggiare sempre insieme, in aereo, in macchina o in treno. Il feeling che abbiamo costruito non l’ho mai avuto né con un fidanzato né con le amiche e gli amici più cari. Negli ultimi tempi ho tagliato i ponti con molte persone che mi hanno delusa e così ho maggiormente valorizzato il rapporto con la mia cagnolina. Purtroppo negli ultimi tre anni Fochina ha sviluppato una forma importante di diabete, che le ha tolto la vista per via delle cataratte. Stava per morire, ma ancora una volta sono riuscita a salvarla. L'avevo portata dalla veterinaria e insieme avevamo trovato il modo per continuare a farla vivere. Avevo individuato il giusto dosaggio e così due volte al giorno le iniettavo insulina facendole delle punturine. Fochina era molto brava perché, così come si è sempre fatta tagliare da me pelo e unghie, anche in questo caso si affidava totalmente, si metteva in posizione e aspettava che io le facessi la puntura, subito dopo la quale le davo una bella razione del suo cibo diabetico che, per fortuna, doveva anche essere molto appetitoso perché lo mangiava con voracità. La cecità ci impedì di punto in bianco di andare in giro insieme come facevamo una volta perché chiaramente aveva paura di essere trascinata nel buio, e allora avevamo trovato una soluzione: quando andavamo fuori, la portavo in braccio lungo le stesse strade che ormai conosceva e lì, una volta a terra, si muoveva con disinvoltura. Al parco, poi, si scatenava, annusava tutto e aveva imparato a orientarsi perfettamente. Purtroppo non poteva più giocare a calcio come una volta. I primi giorni piangevo perché mi ero identificata con la sua cecità e soffrivo insieme a lei. Questo ci ha legate ancora di più. Anch’io ho avuto seri problemi di salute nella mia vita e ho riconosciuto nella forza di questa cagnolina così fragile la mia stessa voglia di vivere. Le ho promesso che sarei stata i suoi occhi e che le avrei dato sempre le giuste cure e attenzioni, ma soprattutto il mio amore.
Fochina purtroppo non c’è più.
Negli ultimi mesi le è stata diagnosticata una malattia, la stessa che ho avuto io anni fa, e che stava facendo nuovamente capolinea nella mia vita. Forse avevamo la stessa patologia, la stessa sorte. Abbiamo vissuto le ultime settimane strette in un amore incondizionato, costellato di cure, attenzioni, ma anche tanta ansia e apprensione. Ci siamo godute ogni attimo possibile, unite e affiatate più che mai. Uno degli ultimi giorni che abbiamo trascorso insieme sono scoppiata in lacrime al pensiero che presto mi avrebbe lasciata sola. Si è accovacciata sulla mia pancia e ha pianto silenziosamente insieme a me.
Ha vissuto bene fino all’ultimo, la nostra vita era ancora bella. Ma una mattina ha cominciato a soffrire e per tre giorni non ha più toccato cibo e ha cominciato a respirare a fatica. La malattia era progredita, la situazione precipitata d’improvviso. Ho sperato fosse un peggioramento transitorio.
L’ho vegliata per tre notti, temendo che il suo respiro si affievolisse. Al quarto giorno ho preso una delle decisioni più dure della mia vita. Le veterinarie mi hanno confermato che non c’era nulla da fare. Fochina ha fatto un lungo giro per tutta la casa, come a voler imprimere ogni profumo, ogni dettaglio. I miei figli l’hanno salutata con strazio e io l’ho presa in braccio e ho fatto con lei l’ultimo viaggio, gli ultimi passi insieme, verso la clinica veterinaria. Ricordo con difficoltà quei momenti carichi di angoscia. La mia mente era in subbuglio, sconvolta. Ansimava, ma quando le è stata praticata la puntura per anestetizzarla, dapprima è sobbalzata e poi ha emesso un lungo sospiro, finalmente rilassata e libera dai dolori tremendi che l’attanagliavano. Mi ha sorriso e tirato fuori la linguetta. L’ho baciata a lungo e le ho sussurrato: “I tuoi fratelli ti salutano e ti amano tanto. E io rimarrò la tua mamma per sempre, non dimenticarlo mai”.
Le due dottoresse hanno pianto con me. Lasciarla andare è stato l’ultimo atto d’amore per lei. Fochina ha lasciato un profondo vuoto. Mi sento inerte e sola. La casa è diventata troppo grande senza di lei. La vedo dappertutto. È dappertutto.
Rimarrà la più grande compagna della mia vita.
Il giorno dopo la sua tristissima dipartita, mi è arrivato il referto che tanto aspettavo. La mia malattia, la stessa che ha portato via la piccola, è benigna. Non sono riuscita a gioire come avrei voluto e mi sono rammaricata perché non ho avuto il tempo di dirlo a Fochina.
Ma poi ho capito una cosa.
Fochina sa. Ciao, amore mio.
Eleonora Castellano, docente e psicologa (marzo 2025@tutti i diritti riservati)